LA “CITTÀ UMANITARIA” NON È POI COSÌ UMANITARIA
Il ministro della Difesa israeliano Katz ha presentato nei giorni scorsi il suo progetto per la costruzione di una cosiddetta “città umanitaria” nel sud della Striscia di Gaza. Secondo il piano, il nuovo insediamento sorgerà sulle macerie di Rafah e accoglierà inizialmente circa 600mila sfollati, attualmente accampati nella zona costiera di Al Mawasi.
Per poter accedere alla nuova città, le persone dovranno superare un controllo di sicurezza volto a escludere legami con Hamas. E, una volta entrati, non potranno più uscire. L’obiettivo dichiarato è spostare poi l’intera popolazione della Striscia – oltre due milioni di persone – all’interno di quest’area recintata e controllata militarmente.
La costruzione dovrebbe iniziare durante una tregua di due mesi ora in fase di negoziazione.
Sono in molti però a chiedersi cosa ci sia di “umanitario” in questo progetto.
E c’è anche chi si chiede se si tratti dello stesso aggettivo della “Gaza Humanitarian Foundation”, l’ ente istituito da Israele e Stati Uniti e deputato ad occuparsi della gestione degli aiuti nella Striscia. Peccato che la fondazione agisca in realtà come strumento di controllo selettivo degli aiuti, limitando l’autonomia delle agenzie umanitarie tradizionali e impedendo che gli aiuti raggiungano aree non approvate da Israele.
Il piano israeliano comunque ricorda da vicino la proposta avanzata a febbraio dal presidente statunitense Donald Trump. Nel corso di una conferenza congiunta con il premier israeliano Netanyahu, Trump aveva illustrato un piano di occupazione della Striscia di Gaza che prevedeva l’espulsione forzata della popolazione palestinese, il pieno controllo del territorio da parte di soggetti terzi e la trasformazione dell’area in una "riviera del Medio Oriente" tramite un ambizioso progetto edilizio.
Proprio Netanyahu, pochi giorni fa a Washington, ha candidato Trump al Premio Nobel per la Pace, lodandolo per i suoi sforzi nel “forgiare la pace in una regione dopo l’altra”. Un’affermazione che ha sollevato non poche perplessità, soprattutto alla luce dei continui bombardamenti in Medio Oriente, delle tensioni con l’Iran e dell’escalation della guerra in Ucraina, intensificatasi proprio sotto la sua presidenza.